In una parola: fantastico.
Dopo averci sbalordito col suo
Albero filosofico, il mai abbastanza rimpianto Vince Beretta se ne torna (ci si augura in pianta stabile) con un altro racconto da Oscar!
E se lo dico io, che detesto le ambientazioni fantasy e quasi tutto il filone mysteriano analogo (sopratutto la parte nibelunga), il complimento vale doppio. Ma perché
questo è il modo di usare il fantasy! Cioè di usare quello che è un microcosmo alternativo al nostro: usarlo come
metafora del nostro e/o ucronia sempre dello stesso! Mica ci voleva tanto!
Tutta la prima sequenza con Martin e Cassandra che spiega il guaio interdimensionale mentre dietro a loro scorrono i tempi è stupenda: il lettore lì per lì non coglie, poi comincia ad intuire dai troppi segnali iconici ma senza capirne il senso, che viene confermato solo alla fine.
Nel frattempo la ragazza comincia a metaforeggiare, dando il via alle danze che ci faranno volteggiare per tutto l'albo.
Lo shrike, ad esempio. Un fenomeno devastante, ma che forse è l'altra parte di equilibrio di una catastrofica giustizia,
"il prodotto di un insieme di colpe individuali o collettive, protratte o trascurate troppo a lungo... anche se è una scintilla che lo scatena, tutti ne subiscono le conseguenze, innocenti compresi".
Non pare proprio la descrizione di robe come le guerre mondiali? O certe enormi crisi economiche?
E il motivo che sta dietro al tutto, cioè l'iper produzione richiesta alle muse, non è chiara metafora del turbo capitalismo che costringe tutto il mondo occidentale nella spirale impazzita del produci-consuma-produci-consuma?
E
produci male, sopratutto. Perché senza tempo, senza rispettare le tre leggi dell'equilibrio del lavoro, non si può che produrre male. Produrre oggetti scadenti e/o inutili. E peggio ancora, produrre alienazione. Quella perdità del sé per cui pare che il lavoratore ritrovi la sua sola identità quando si trasforma in consumatore nel weekend.
Il "produrre troppo = produrre male" è l'asse portante, direi la weltanschaung, del racconto. Che è vero in ogni settore del lavoro, ma ovviamente risulta molto più evidente su prodotti raffinati, in cui la qualità conta mille volte di più della quantità. Tra questi, centralissimi, i prodotti dell'ingegno e artistici.
E' fin troppo palese la connotazione autobiografica settoriale: Beretta racconta ciò che conosce, cioè la produzione di fumetti (altri omonimi avrebbero potuto raccontare di salumi o di armi, ma la sostanza non cambia... ahahaha come sono spiritoso!) e conferma una mia storica convinzione e cioè che aumentando le uscite senza aumentare adeguatamente gli autori, si finisce per produrre roba qualitativamente inferiore (sì, sono uno zagoriano
).
Il discorso della prima musa è di certo una velatura dietro a cui è facile riconoscere la denuncia dell'autore spremuto:
"Le idee non mi mancano, ma non riesco più a tesserle bene come prima. Immagino una dama o un eroe che combatte e non riesco a produrre che grovigli e trame senza senso. Quando lavoravo col vecchio metodo, io vivevo con loro, era come fossero reali... ora non più".E qua c'è da chiedersi cosa rappresentano i fusi dei fati. Una droga che l'artista prende per produrre di più? Un "materiale" narrativo scadente tanto per aumentare le pagine? Iniziative commerciali come le variant cover, gadget, colore, ecc.?
Credo un po' tutto questo.
Altro elemento delizioso è la concretizzazione di luoghi concettuali, come l'inconscio paragonato al mare, al suo funzionamento simile, spiegato da Kut Humi mentre passeggiano sulla spiaggia. O l'orizzonte creativo, il luogo dove si formano le idee e il caos visivo rappresentato. O la parte in cui si parla degli spazi interiori dell'animo umano. O la piccola Pip, una scintilla di idea poi mai sviluppata. In questa fase mi ha molto ricordato l'immane capolavoro Disney
Inside out, e sono quasi sicuro che Beretta ci si sia ispirato, pur usando concetti autonomi.
Questa parte l'ho trovata molto vicina ad un libro che casualmente sto leggendo proprio in questi giorni, ovvero
L'ultima riga delle favole di Gramellini, in cui c'è continua concretizzazione di luoghi immaginari e simbolici (per la cronaca: un po' pesantino, molto meglio questo albo!).
E' poi perfino poetico il meccanismo ecosistemico su cui si basa l'interazione tra la Terra e Faerie, con le muse che ispirano gli umani ad essere creativi, e queste energie creative vanno a loro volta ad alimentare i flussi vitali di Faerie.
Che anch'essa è solo una metafora del ciclo dell'arte, simile a quello dell'acqua: nel senso che si parte con qualcuno che crea qualcosa, che influenza un altro, che sulla base di questa influenza crea ancora qualcos'altro che influenzerà un altro, compreso pure lo stesso primo elemento della catena e così via. Come se l'arte e l'ingegno fossero sempre lo stesso "blocco", che ogni generazione e ogni popolo si passa l'uno con l'altro.
E poi ancora tanto altro (vogliamo parlare della arguta introduzione in tono arcaico?) rispetto a quanto ho già detto. Ci sono davvero un sacco di sequenze, alle volte anche solo di poche vignette, ma che dicono davvero tanto, con una intensità inusuale.
Gli unici momenti di caduta sono le scene d'azione: assai improbabile come sfuggono ai draghi, ma anche il Martin fin troppo uomo d'azione, tanto che si è costretti a darne una giustificazione magica, sennò strideva troppo.
In ultimo, bravi gli Esposito, ma bravissimo Alessandrini che ancora una volta, come già nell'
Albero filosofico, si dimostra particolarmente ispirato dallo sceneggiatore, snocciolando atmosfere che non pensavi in sintonia col suo tratto così sintetico.
Insomma, un nuovo grandissimo lavoro di Beretta, che prego il Dio dei fumetti che lo faccia restare quanto più a lungo con noi.
PS: Questo è il mio primo post (ciao a tutti!
). Leggo il BVZM dal 1990 ininterrottamente e ho tutta la serie. Ogni tanto vi lurko, ma non mi sono mai iscritto (sono pigro). Ma ci tenevo a commentare questa bellissima storia.
E ora mi vado a leggere i vostri messaggi, ma da utente...